
di Andy Sin.
“Che lavoro fai?” è forse una delle domande più comuni nei rapporti interpersonali. Eppure ci sono persone, come me, che rispondo non senza imbarazzo a questa domanda. Tanti sono i mestieri che non vengono considerati degni del sostantivo “lavoro” in questa penisola conformista. Basta pensare alla cenerentola delle arti, il teatro: in Italia una buona percentuale delle attività artistiche riguarda il teatro, anche se in molti casi si tratta di compagnie mal finanziate, costrette quasi sempre a doversi esibire in festival senza percepire nemmeno un rimborso spese. Figlia della situazione teatrale è quella del cabaret, che premia solamente i dinosauri della risata foraggiati dai testi dei migliori autori. A seguire il cinema underground, che per il connotato tecnologico che ha assunto questa forma d'espressione, necessita sempre più spesso di investimenti cospicui a supporto dei giovani talenti in regia. Più fortunate le arti classiche, che godono dell'appoggio di accademie di belle arti sparse per il nostro paese. Ma rimangono pur sempre mestieri da straccioni, per la massa, queste attività zingare per natura.
In fondo, non possiamo negarlo, è anche la comune approvazione che determina l'appartenenza ad un mondo del lavoro più o meno qualificato. Ma questo in Italia stranamente non succede. Forse per overdose artistica che il nostro paese ha sempre portato in dote fin dai tempi antichi, forse per l'appiattimento ed il progredire di subculture sempre più ignoranti e qualunquiste verso l'arte. Oggi il mondo delle produzioni artistiche è molto più simile a quello industriale che non alle tradizionali corti, in cui l'artista veniva coccolati, anche se schiavo della glorificazione del signorotto locale. Se una volta il talento era custodito come un bene prezioso, oggi invece è trattato come un sognatore inguaribile, che non fa audience e non produce fatturato. Forse perchè ancora una volta il mezzo televisivo deve offrire in pasto alla gente fenomeni da baraccone, che si carichino di tutte le nostre frustrazioni quotidiane, per liberarci dalle domande che potrebbero metterci in imbarazzo. Ci sono almeno 5 format in onda sulle tv a diffusione nazionale che propongono ogni tipo di nuovo “talento”, salvo svanire nel nulla appena terminato il programma. E come disse qualcuno, siamo un popolo “senza più santi ne eroi”.
L'arte regina, la musica, ha perso qualsiasi connotato umano, ridefinendosi in un agglomerato digitale sempre meno credibile. La sua gestione è in mano a magnati che nulla hanno a che fare con la qualità del prodotto, ma solo alla sua vendibilità. In effetti le major discografiche hanno imparato molto bene la lezioncina secondo cui “se il popolo vuole merda, vendiamogli letame e diventeremo ricchi”. Il sistema che governava le band ed i cantautori di 30 anni fa era troppo poco redditizio per le etichette discografiche, e tendeva, alla lunga, ad affrancare gli artisti, tant'è che molti (Beatles, Pink Floyd, o i nostrani Pooh) si mettevano in condizione di mettere in piedi essi stessi delle label per prodursi e promuoversi. Questo perchè l'artista non guadagna tanto dalle vendite dei dischi, quanto dalle royalties e dai concerti. Nel nostro paese la cultura del “live”, per quanto molto scarsa, ha vissuto un solo periodo di prosperità negli anni settanta, per poi essere definitivamente pugnalata con l'avvento delle sale da ballo e discoteche, che potevano così soppiantare le “orchestre” sostituendole con una console ed un becero idiota chiamato DJ. Il tutto in nome del popolo ballerino e sovrano e del budget. E dire che i Disc Jockey spesso si piccano di “suonare” in un locale. Come se mettere su un paio di dischi potesse dirsi “suonare”. Riprendendo una popolare battuta, allora, siamo tutti gran tombeur de femmes visionando un film porno...
Che cosa rimane di questo mondo che ormai viene trattato alla stessa stregua delle produzioni di mortadella ? Oggi la vita del musicista è un vero calvario: non si può sperare di guadagnare a meno di colpi di fortuna incredibili. Spesso le serate live sono pagate a prezzi da fame, impedendo di fatto a qualsiasi musicista che voglia dirsi tale di potersi guadagnare il pane con quello per cui ha tanto studiato e faticato. Nelle orchestre classiche vengono costantemente diminuiti gli stipendi, mortificando di fatto un'élite di musicisti di cui potevamo andare fieri a livello mondiale, riducendoli a meri impiegati con contratto atipico.
Chi invece si avventura nella produzione di brani originali, deve pagare un sanguinoso tributo al music business e all'ignoranza sempre più diffusa: tribute e cover band occupano come prezzomoline la scena underground, non consentendo la naturale circolazione delle nuove idee, fossilizzando il pubblico su un repertorio ai limiti del nauseabondo. Di più, non c'è nessuna garanzia che i diritti d'autore vengano pagati. Infatti, affinché un autore percepisca i diritti per un passaggio radiofonico o in discoteca, è necessario far parte del “campione” stilato dalla SIAE, la “cosa nostra” musicale, che tutto incamera in nome di un non meglio precisato dovere di tutela. Ma in effetti non c'è tutela per chi, pur iscritto alla Società Italiana Autori ed Editori, non rientra nelle classifiche. L'output di tutto questo non può che essere il costante arricchimento dei soliti volti noti, prosciugando qualsiasi fonte che dovrebbe invece servire a foraggiare chi sta cercando di emergere. Di più, anche la sempiterna burocrazia medioevale che domina lo stivale mette lo zampino anche qui: il modulo che ogni band o orchestra deve riempire a fine serata, dovrebbe indicare i brani eseguiti, e quindi a chi ripartire i diritti d'autore. Ma la SIAE versa il 20% di questi ricavati alle etichette di liscio. Perchè ? Forse perchè in passato molti dei presidenti di queste case discografiche (come Raul Casadei) siedevano quali consiglieri nell'amministrazione SIAE ?
Le produzioni musicali in lingua straniera sono bistrattate come l'amico scomodo, che assolutamente non si deve frequentare in pubblico, salvo dedicargli qualche festival separato (un trattamento che mi ricorda da vicino i ghetti nazisti, ai quali approvigionarsi d'oro per poi lasciarlo morire). E' infatti poco noto che generi come il rock, il blues, il jazz e l'heavy metal sono le fucine dei tournisti (musicisti a pagamento) di tutti i grandi artisti italiani. Se possibile è peggiore la fine di chi sceglie la via dell'idioma nazionale, che tende ad appiattire la forma-canzone schiavizzandola ai 3 minuti e 30 più radiofonici.
Non meravigliamoci quindi se in radio, negli stadi e nei locali non possiamo vedere altro che i soliti cloni. La colpa è essenzialmente di questo popolino stanco e senza sogni, che è troppo indaffarato con i conti della serva per regalarsi un momento di svago e cultura quale può essere quello musicale. E concorso di colpa lo hanno anche i musicisti italiani, che spesso per opportunismo e vedendo il guadagno immediato (ma molto misero) si “prostituiscono” pur di tirare a campare sulla breve distanza.
La musica vera, oggi, bisogna andarsela a cercare. Ed anche questo può essere un lavoraccio. Ma si sa, fare il musicista non è un lavoro, giusto ? Quindi nemmeno la ricerca del bello può essere considerata tale. Abituati a monetizzare qualsiasi cosa, abbiamo dimenticato che il ritorno di un mestiere potrebbe non essere solo materiale e sicuramente non solo ad uso e consumo personale.
La musica, almeno per chi fa il mio mestiere, deve rimanere un bene collettivo.
Nessun commento:
Posta un commento