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martedì 9 novembre 2010

Trentanove e mezzo di febbre



di Lagrandefame.

Cari amici, posto uno dei sette racconti che fanno parte del mio libro Il Pianista Nano. In realtà non ci avevo pensato prima a farlo perché credevo non potessi. Ora, dopo aver riletto il contratto di edizione e dopo aver contattato la casa editrice (0111 Edizioni) ho scoperto che posso pubblicare altrove, diciamo a scopo "promozionale", il 15% del libro. Ho inserito questo racconto perché è il più breve del libro e quindi di conseguenza il più adatto per questa sezione.
Buona lettura.




TRENTANOVE E MEZZO DI FEBBRE


E' come se avessi sempre la febbre, una fastidiosissima, irritante, dolorosa febbre. Sapete, quei lunghi e interminabili brividi lungo la schiena, quei frenetici tremori, quella sensibilità elettrizzante che se pure qualcuno ti sfiora appena ti sembra ti sferzino addosso, come scapaccioni a mano rovescia, tutti i venti gelidi di questa fetente terra. E nessuna voglia di muovermi, di parlare, di bestemmiare, di recitare il mio bel rosario di parolacce in dialetto. Solo gemiti strozzati, lamenti alitati nel caldo malato di una coperta azzurra chiazzata di sugo crepato nell'olio fatto da mio nonno, una lurida coperta che mi tiro addosso come se provassi terrore per chissà cosa. Ogni tanto butto giù un sorso di vino per rendere la mia febbre anche un po' malinconica, rituffando il dannato cuore nelle dolorose tachicardie passate: atroci sussulti di un tempo che ritorna ogni qualvolta credi di averlo sepolto per sempre.
Poi un inatteso balzo dal capezzale, la coperta vola via fino ad atterrare sul pavimento insozzato dalla mia pigrizia, un vorticoso giramento di testa e penso: "tra non molto sarai qui, entrerai da quella porta, la stessa di qualche dolore fa, mi sorriderai come sempre e io guarirò finalmente da questa stramaledetta febbre parlandoti come ho immaginato di fare poco fa sotto il caldo malato di quella coperta azzurra.”
Ma ecco lo scampanellare imbufalito e incazzoso e io mi fiondo ad aprire la porta, sudato e come impazzito.
Eccoti, sei arrivata, hai varcato la soglia della porta d'ingresso con un buffo passo di danza, uno sfizioso sculettìo, accennando un debole e graziosissimo saluto incorniciato da un meraviglioso sorriso magicamente scolpito su quelle sottili labbra che di certo devono avere più sapore del vino più buono.
Ti saluto con ritrovata calma, azzardo una carezza tra i tuoi capelli neri con una mano ora meno parkinsoniana del solito; un'altra carezza ai tuoi occhioni splendidi con i miei che sprizzano ebetismo e goffo smarrimento. Ma siediti amore mio, siediti dove ti pare, siediti pure sulla mia schiena, che m'importa? Hai le scarpe sporche? Vuoi uno zerbino? Vuoi che mi spalmi sul pavimento? Dici che non sai dove appoggiare il tuo cappotto? Appendilo su di me, non c'è problema.
Ecco, poi penso, ora devo soltanto saper cominciare. Questione di parole giuste, di tatto, di buonsenso, di toni accorti, di gestualità misurata, di due parolacce al minuto anziché cinque, mani tra le mani invece che tra i coglioni sudati.
Ti sorrido, ebbro d'amore, e l'ultimo brivido di febbre va via, l'ultima fitta alle gambe scompare. Sei lì in piedi, ti guardi attorno, un po' perplessa. Forse non ti piace l'appartamento? Vuoi che cambi tutto? Butto giù quel muro troppo ingombrante? Vado a rubare un divano più comodo?
No, forse stai solo aspettando che io ti parli, vero? Ti guardi attorno come per prendere tempo, giusto? E io ti parlo. Perché no? Ho deciso.
"Vuoi un caffè? o preferisci del vino?"
"Caffè, grazie."
Oh, misero me! Che tristezza! Vorrei picchiarmi da solo dinanzi a te per quanto sono stupido.
Ma va bene, andiamo a prenderci questo caffè. Prendo dei biscottini, ti conduco nella mia piccola cucina guardandoti sculettare, afferro la macchinetta del caffè eternamente incrostata, faccio frantumare a terra tre piatti, gli ultimi. E due bicchieri, gli ultimi. E tu ridi sollazzata. Ma sì, ridi pure della mia sbadataggine, se vuoi mi metto ad imitare Totò o Troisi pur di farti divertire, o pulcinella, o un cagnolino che non riesce a pisciare nonostante il comando, oppure mi materializzo in un peluche che rutta appena lo accarezzi, vuoi?
Il caffè sghignazza sguaiato dalla macchinetta che balla sui fornelli.
E' pronto, pare.
E davanti alle tazzine fumanti apri la tua deliziosa bocca. Mi parli con insistenza di qualcosa, di qualcuno, di pensieri fissi. E fumando una sigaretta continui a parlare di qualcosa, di qualcuno, di pensieri fissi. E io, sospirando, ti ascolto con amara attenzione, anzi, forse ascolto solo il suono della tua voce e guardo le labbra che danzano. E continui imperterrita a parlare di qualcosa, di qualcuno, di pensieri fissi e dopo un po' i miei occhi si rassegnano. E mi tornano pian piano, languidamente, i brividi lungo la schiena, i tremori, i dolori, l'assenza di movimento e l'alito troppo caldo e cattivo. E come un idiota aspetto che tu te ne vada. Ma un momento, ti prego! Cantami qualcosa, lasciami almeno una nota su cui poter arrangiare tutto il mio amore fantasioso. Dici che ti serve uno strumento? Usa me, io sarò il tuo strumento, prendi il mio corpo e strimpellalo come una chitarra, percuotilo come un tamburo, pigialo come un pianoforte, suonami, suonami e canta, dal mio corpo uscirà tutta la musica che vorrai e che ti serve.
Macché, te ne vai via sculettando e io riprendo mestamente il posto di prima, sprofondato nel divano e sepolto dalla coperta azzurra imbevuta nell'olio, di nuovo in preda alla febbre, al sudore che impregna i miei neuroni ormai sulla facile via della demenza e dell'imbecillità. E penso: "l'amore mi scansa."
Poi affondo ancora le labbra nel vino per alimentare maggiore malinconia e maledico me stesso di non saper guarire. Pochi mesi d'illusione, di benessere ritrovato e poi nuovamente a testa in giù fino a farmi uscire il sangue del cuore dalla bocca.
"Ma perché non te ne stai buono per almeno sei mesi, eh? Perché, una volta guarito, non pensi a fare qualcos'altro che non abbia a che fare con quella bestia dell'amore, eh? Che ne so, pensa a pulire casa due volte alla settimana, a iscriverti a un corso di cucina maltese, a guardare tutti i film di chuk norris, a fare del volontariato, a parlare di politica con la tv, a scommettere sulle partite, ad ubriacarti in compagnia, a tagliarti le unghie dei piedi che stanno lì dure e affilate da quando l'ultima donna ti ha lasciato col culo a strofinare per bene le scale di un condominio. Non hai sofferto già abbastanza? Non ti sei ridicolizzato abbastanza? Ne vuoi ancora? Non lo vedi che con lei non è possibile? Non l'hai ascoltata poco fa? Non l'hai guardata come si deve negli occhi? Dov'eri imbecille con quella testa di minchia che ti ritrovi, eh? Già dietro di lei ad urlare brandendo un lazo, vero? Idiota!"
Questo è quanto mi dico spesso nei miei deliri della febbre, nel buio soffocante di quella merdosissima coperta azzurra ricoperta d'olio fatto in casa.
Poi mi sorprende un sorriso e penso che non c'è fretta. Ma sì, non c'è fretta, la prossima volta ti dirò ciò che devo. Invece di chiederti se vuoi un caffè ti parlerò, e subito, del mio amore, col cuore in mano. Che ci vuole? Non è mica difficile.
Ma la prossima volta è sempre la stessa e identica volta. Solito caffè, soliti tuoi temi ammoscianti su qualcosa e qualcuno discussi e ridiscussi e io lì fermo a farmi tornare la febbre e dopo a dirmi che sarà ancora per la prossima volta, fino a quando avrò l'età per vergognarmi della mia stupidità.
Ma, a pensarci bene agonizzante con trentanove e mezzo di febbre, non ti ho ancora detto nulla perché semplicemente non voglio dirtelo.
Forse perché ho paura di una tua sberla dolce e consolatrice mentre scuoti la testa e mentre la mia gira veloce sul mio collo. Forse perché ho paura di perdere per sempre la speranza di offrirti almeno un caffè. Forse perché ho paura di amarti toccando con mano. Forse perché ho paura di ferirmi, di massacrarmi ancora e ancora e ancora, anche se ho già male dappertutto. Forse perché, più semplicemente e più probabilmente, ho paura del tuo categorico rifiuto, puntualizzato da una pedata in piena faccia. Razza di idiota che sono, non ho ascoltato ciò che mi hai detto? Non ti ho guardata come si deve negli occhi? Non ho dato retta ai tuoi pensieri fissi?
"Alzati, cammina, vai al cesso e scoreggia seduto tutti i tuoi puzzolenti tormenti, tira lo sciacquone e spera di non scorgere il volto di lei riflesso nella pozza d'acqua pulita.” penso.
Però, quanto mi piacerebbe darti un bacio sul cuore per farlo cominciare a battere come batte il mio.
Ma probabilmente, conoscendomi un po', nemmeno allora la febbre sarà andata via, o almeno non del tutto.
Forse ora è meglio che sciolga un'aspirina in un bicchiere di vino per riprendere a delirare, che è la cosa che mi riesce senz'altro meglio.
E penso che cambierò coperta. La chiazza di sugo crepato nell'olio mi ha disgustato. Proverò quel plaid rosso imbrattato di cioccolato al peperoncino fulminante.
Immergerò di nuovo la testa nella febbre, e continuerò ad inventarti fino a quando qualcuno non mi avrà trovato un buon dottore.

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