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sabato 27 febbraio 2010

Misty Lane # 3

Caffè letterario


di Roberto Sonaglia.

III.

C’è una cosa che non ho mai detto a nessuno: non ho paura del buio. E nemmeno della luce estrema. Nel buio, e dove non c’è che luce, non esistono ombre.
Sono le ombre a incutermi terrore, quelle che strisciano lungo le pareti, quando il sole tramonta, e diventano via via più veloci mentre il cielo passa dall’azzurro al grigio cenere, e poi al nero. Quelle che si stampano sui muri a mezzogiorno, nette e precise come la forma delle cose che rappresentano, come le potresti ottenere da un’esplosione nucleare: stampe in due dimensioni di quelli che una volta erano corpi viventi, e dei quali rimane solo la sagoma.
Nelle ombre si nascondono i peccati, e le preghiere in fiamme, urlate da angeli caduti, e semplici esseri umani senza nessun potere, se non quello di peccare ancora, e cercare risposte al fuoco che brucia il loro destino, le loro membra, le loro anime condannate.
Ho paura delle ombre che chiedono perdono, perché, purificate dalla luce, o dalle tenebre, taglieranno ancora la propria carne, e il loro spirito, con lame di ghiaccio -infernale o divino- e moriranno altre mille morti, prima di rinascere trasparenti come vetro, fragili come vetro.
Cantavo una canzone, mentre varcavo la soglia della stanza scura, e mi prendevo in giro. Perché ero convinto che dentro regnassero le tenebre. Ma era il Regno delle Ombre, imprigionate nelle pareti, che si lamentavano, contorcevano quei centimetri di corpo che ancora i muri non avevano digerito; quelle che avevano occhi per vedere mi fissavano, scrutando fra le pieghe della mia pelle in cerca di speranza, o della speranza finale.
E sentivo, nonostante lo spesso tappeto di velluto che ricopriva il pavimento, i passi leggeri di piedi nudi avvicinarsi lenti, e tonfi regolari contro la parete, lungo il corridoio, fuori dalla stanza. E immaginavo quel sorriso sinistro, gli occhi di ghiaccio della bambina col vestito nero a fiori bianchi, attendere che perdessi la battaglia, per aprire il mio petto con le unghie e i denti, e strappare via il cuore dalle arterie per giocarci a palla. Se perdevo la battaglia.
Al centro della stanza -ero troppo distratto dai lamenti dei dannati, per notarlo subito- c’era un treppiede, dove ardeva una fiamma lenta, bluastra. Qualcosa bruciava, sprigionando un fumo evanescente, bianchiccio.
Mi avvicinai, e presi quella pagina, salvandola da eterna consunzione. Era di colore rosso chiaro, e strana consistenza, come fatta di un tessuto elastico, e caldo. Sopra, vergata con caratteri neri, decisi, nella mia calligrafia, la domanda che mi ronzava in testa, mentre sognavo ballerine di porcellana su carillon liberty, prima di entrare nell’Hotel della Pace, e cercare di riavere le mie ali.
Quella domanda che mi ero dimenticato, lasciando scivolasse nell’oblìo, mentre rispondevo ad altre, e che ora ritrovavo su una pagina rossa, scritta con la mia scrittura.
La domanda che apre ogni risposta: “Tu chi sei?”.


MESSAGGIO


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