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venerdì 5 febbraio 2010

Violenza e cattivo gusto

Seconda pagina - Focus



di Alfredo Sgarlato.

Giorni fa ho visitato una mostra dedicata ai vecchi ricordi di scuola. Tra le foto in bianco e nero e i vecchi libri e quaderni spiccava un catechismo fascista, in cui si leggeva un edificante raccontino sulla “M” che due ragazzi portavano sul petto, la M sia di Mussolini che di Mamma. Aldilà della palese omofilia che innerva il culto della personalità di ogni dittatore, si può ragionare su come ogni dittatura, regime, mafia, conventicola, abbiano due tratti inevitabili: la violenza e il cattivo gusto. Per quanto la violenza sia inaccettabile, è altrettanto facile a giustificarsi: il militante dirà “eravamo in guerra, ho dovuto combattere” (sia chiaro che io non accetto la scusa) e spesso la condanna della violenza è, giustamente, il mezzo per arrivare alla condanna dei regimi. Ma a parte qualche caso sporadico (Milan Kundera nel suo romanzo più famoso, Fellini in “Amarcord”) non si è mai notato abbastanza quanto i regimi siano intrisi di cattivo gusto, dagli slogan mussoliniani al passo dell’oca, fino a Chavez che, come un mitico personaggio di Woody Allen; cambia l’ora a suo arbitrio. Ma perché succede? È una forma di lavaggio del cervello: costringere persone a fare cose inutili e ridicole li costringe ad immedesimarsi. E i riti, le divise, il linguaggio personalizzato, che fanno parte di qualsiasi gruppo organizzato, dagli Scout all’Opus Dei, se hanno una punta di ridicolo rafforzano il gruppo proprio perché escludono gli altri. Infatti elemento fondamentale per la coesione di un gruppo, come dice lo psicoanalista Wilfred Bion, è la difesa da un nemico comune. Che può anche essere immaginario, e allora diventa paranoia. E, attenzione, se il nemico esterno viene vinto o non fa così paura, allora si crea un nemico interno, attaccando i più deboli o i peggio integrati.

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