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sabato 6 marzo 2010

Misty Lane # 4

Caffè letterario


di Roberto Sonaglia.


IV.

“Tu chi sei?”, quella domanda, segnata di mio pugno sulla pagina rossa, che non ricordavo di aver mai toccato, prima di quel momento, tenne occupati i neuroni, per lunghi istanti, aprendo altre domande.
A chi era rivolta? Potevo averla scritta in una strana trance, durante un’amnesia, o un anamnesi? Ero io l’oggetto in questione? Segnando quella semplice, assoluta domanda, mi ero forse voluto premunire affinché il Sé non perdesse consapevolezza, oppure la ritrovasse, come chi, persi i ricordi a breve termine, segna e appunta le proprie azioni, i volti e i nomi che incontra, per ritrovare traccia del proprio passaggio, fuor di memoria?
O era rivolta a qualcun altro? A una delle ombre di cui quella stanza era pregna, imprigionate nelle pareti, che si contorcevano, urlavano con voci mentali, chiedendo non una liberazione, ma la Liberazione?
Era una preghiera senza risposta destinata a un’entità superiore, a Dio, forse? Non così semplice, no: il Capo si fa leggere la corrispondenza, e non risponde mai, se non per interposta Divinità. E io, con lo Spirito Santo, era un po’ che messaggiavo.
Questioni assurde, dopotutto, perché filosofeggiando perdevo tempo, e la filosofia non spiega nulla, se non che ogni risposta apre altre domande, e così via, all’infinito.
Sentivo un brivido lungo le scapole, una corrente d’aria fredda, o la scia umidiccia di una lumaca che percorreva i sentieri della mia pelle, lungo la schiena. Improvvisamente compresi che non ero solo, in quella stanza -per quanto solo era un’iperbole, con quella massa di anime dannate a far da scenografia, su tutte le pareti e il soffitto, inglobate nell’intonaco stinto.
Senza nemmen voltarmi, sentii che la porta era stata aperta, la bambina scalza col vestito nero a fiori e gli occhi di ghiaccio, mi fissava, tenendo stretta la palla rossa al petto. E non era sola.
Potevo rimanere così, fermo, dandole le spalle, in attesa che la sinistra ragazzina mi saltasse addosso e, strappando la carne dalla schiena, artigliasse il cuore, con le unghie, strizzandolo fino a che anche l’ultima goccia di sangue fosse uscita, sprizzata fuori dalla ferita. Oppure potevo voltarmi, e affrontare l’ignoto.
Ovviamente mi voltai. La bambina era lì. Ma non c’era nessuno con lei. Non è vero, qualcosa c’era, una strana perturbazione nell’aria, alla sua sinistra, come un’opacizzazione, una vibrazione nelle molecole di idrogeno e ossigeno.
“E’ il mio doppio”, pensai subito, “l’altra parte di me, che ha scritto quelle parole sulla pagina rossa”. Ma subito scartai l’ipotesi. E’ vero, si muoveva in maniera direttamente consequenziale alla mia. Se mi spostavo a destra ’lui’ (o ’lei’, o ’esso’) si muoveva a sinistra. Se sollevavo una mano anche ’lui’ (o ’lei’, o ’esso’) la sollevava. Ma c’era una specie di ritardo, nei suoi movimenti, non stavo osservando me stesso attraverso uno specchio oscuro. Quella vibrazione nell’aria, quella ’cosa’, si prendeva gioco di me. E la ragazzina rideva, sinistramente, solo con la bocca, perché i suoi occhi di ghiaccio erano pozze di indifferenza assoluta.
Misi la pagina rossa nella tasca del cappotto, e mi accesi una sigaretta. Ovunque fossero le mie Ali, dovevo passare oltre quelle due figure spettrali che occupavano il vano della porta, per continuare a cercarle.
Liberarsi della ragazzina era facile: un paio di calci nel culo e si sarebbe fatta da parte, lei e la sua maledetta palla, e quel sorriso sinistro del cazzo. Con l’ectoplasma il lavoro poteva presentare maggiori difficoltà.
Ma ero provvisto anche di una buona riserva di calci che agivano sul piano spirituale.




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