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lunedì 20 settembre 2010

Il teschio del capitano



di Samanta Sonaglia

Questa storia è ispirata ad una nota leggenda popolare. Si dice sia un fatto realmente accaduto più o meno a metà del diciannovesimo secolo. Sconvolse l’intera città di Napoli. Fu così eclatante, che si tramanda da generazioni, sul web ci sono diversi siti che raccontano il fatto, in diverse versioni, tra cui Wikipedia. Io racconto a modo mio quella che narrava mia nonna, alla quale ho sempre creduto.
Ovviamente la storia popolare è molto breve, fatti, situazioni, luoghi (a parte il cimitero stesso), e personaggi esposti nel racconto seguente sono totalmente frutto della mia immaginazione.
Il Cimitero delle Fontanelle è detto anche Cimitero delle anime pezzentelle, perché in tempi molto antichi lì venivano riposti i resti di gente povera, che non poteva permettersi un’adeguata sepoltura. A quanto ne so, per lo più ci sono le spoglie delle vittime della peste che colpì Napoli quattro secoli fa, o soldati morti ai tempi degli spagnoli. Ma non si esclude ci siano anche resti di personaggi illustri. Si dice addirittura che lì, nel 1837, siano stati portati quelli di Giacomo Leopardi, anno in cui morì il poeta, vittima dell’epidemia di colera che colpì la città.

Carmela, in comune con tutte le altre ragazze della sua età, aveva un sogno: sposarsi e portare il cognome del marito, e quello dei suoi futuri figli. Non era molto rilevante con chi farlo, a quei tempi la cosa importante era sistemarsi, e lei che ormai aveva raggiunto un’età che cominciava a farla additare da tutti come la zitella del quartiere - anche se non aveva ancora vent’anni - ne soffriva molto, soprattutto perché le sue coetanee erano tutte quantomeno fidanzate, o promesse spose. Quello che la preoccupava maggiormente era la sua fisicità: il pallore del viso e l’eccessiva magrezza, le davano un aspetto alquanto malaticcio, che gli uomini dell’epoca – e non solo loro – reputavano poco attraente.
La sua amica Concetta un giorno le parlò del Cimitero delle Fontanelle, giurando aver trovato la sua fortuna da quando aveva preso sotto le sue cure il teschio di una delle anime pezzentelle, i cui resti giacevano in completo anonimato proprio lì, chissà da quanto tempo. Concetta era convinta che il suo teschio appartenesse a qualche valoroso eroe del secolo precedente, che non aveva avuto una degna sepoltura perchè secondo lei i veri eroi muoiono senza gloria. Forse era proprio così, ma in realtà Carmela pensava che quel teschio appartenesse soltanto a uno di quei poveretti morti durante la peste che colpì Napoli circa due secoli prima, nel 1656, per essere precisi. Ma tenne per sé quel pensiero; a prescindere da chi appartenesse il teschio, non voleva rischiare che quell’anima salisse dal purgatorio per tormentarla, o gettarle addosso ancora più sfortuna di quanto già ne patisse.
Concetta era sposata da due mesi, e ogni giorno si recava al cimitero per pregare l’anima pezzentella del suo eroe misterioso, e chiedergli la grazia di avere un bel bambino maschio, che avrebbe reso il padre orgoglioso di essere uomo per aver generato un erede, e non dover quindi subire la vergogna di venir visto come un fallito.
Un giorno la ragazza riuscì a convincere Carmela a seguirla in quello strano posto, assicurandole che se avesse preso anche lei in custodia un teschio a cui chiedere la grazia di trovare marito, sicuramente quell’anima sventurata l’avrebbe esaudita presto, proprio come era successo a lei.
Carmela non ci pensò molto prima di accettare: infondo cosa le sarebbe costato? Avrebbe dato a una di quelle anime in pena nel purgatorio l’onore che tutti i morti meritano; l’avrebbe tolto dalla massa dandogli un posto di tutto rispetto sull’altarino che avrebbe creato per venerarlo… e poi… Concetta aveva ragione… se l’avesse trattato bene, sicuramente quell’anima avrebbe fatto in modo di esaudire i suoi desideri.
E così il giorno dopo seguì la sua amica, scelse tra i tanti teschi quello più chiaro: non perché quel chiarore brillò quasi fosse una luce, non appena i suoi occhi si posarono su di esso, ma perché sentì come una voce che le ordinasse “eccomi, devi prendere me”.
Non si lasciò spaventare da quella voce, ma le obbedì mettendo subito il teschio su una teca di cristallo, che faceva da altarino, dopo averlo pulito bene e lucidato, adornato con tanto di rosario, fazzoletti e cuscini ricamati, lumini e fiori. Ora tutto era pronto affinché l’anima esaudisse i suoi desideri.

Era passato qualche mese da quando Carmela aveva seguito la sua amica per la prima volta, e quel teschio, per lei, era diventato ormai una specie d’amico – o forse un’ossessione - a cui confidava le sue frustrazioni, e ogni giorno gli chiedeva di esaudire i suoi desideri perché secondo lei, era un diritto che le spettava, visto che fino a quel momento la sua vita era stata vuota come un guscio d’uovo. La ragazza era così presa da quelle preghiere, che ogni giorno andava al cimitero ad un’ora sempre diversa, perché non voleva che qualcuno la seguisse e intralciasse le sue richieste, o la distraesse dalle implorazioni, o forse solo perché aveva paura di veder derisa la propria devozione verso quel teschio, anche se sapeva benissimo che nessuno avrebbe osato farlo.
Una mattina, mentre si recava in quel posto, finalmente le sue suppliche vennero accolte: incontrò un giovanotto che le mostrò subito interesse. Era un tipo grassoccio e dai modi altezzosi, e per quello che dimostravano il suo abbigliamento e i modi da damerino, doveva provenire anche da una famiglia benestante. Si chiamava Felice; a Carmela quel nome sembrò un segno del destino, ed immediatamente accettò di buon grado le attenzioni del giovane, tanto che trascorse solo qualche settimana prima che il ragazzo le chiedesse la mano, subito dopo averne fatto richiesta ai genitori, come usavano fare tutti i gentiluomini di quei tempi, e lei non si lasciò sfuggire l’occasione.

Carmela continuava a far visita al suo teschio, ogni giorno, ora più che mai, perché le aveva fatto la grazia, e doveva venerarlo ancora più di prima. Quando Felice le chiese di sposarlo, lei gli disse che avrebbe accettato, ovviamente, ma prima avrebbe dovuto conoscere l’anima pezzentella che aveva fatto in modo si incontrassero.
Anche se non aveva mai creduto a cose del genere, schernendole appena gli si presentava l’occasione, il ragazzo assecondò la richiesta della fidanzata, e una settimana prima del matrimonio, andò con lei al Cimitero delle Fontanelle, scettico come sempre, ma incuriosito dall’entusiasmo della ragazza.
Rimase un po’ perplesso quando vide che non appena arrivati lì, la sua futura moglie si inginocchiava ai piedi del teschio e cominciava a pulirlo, lustrarlo, veneralo, ignorando totalmente la sua presenza.
Ingelosito dalle attenzioni che Carmela dedicava a quei resti consumati, e per distogliere la ragazza da quella reliquia senza nome, infilò il suo bastone nell’occhio sinistro del teschio, sollevandolo più o meno all’altezza della sua testa.
- Cosa dite Carmela, invitiamo anche lui al nostro matrimonio? – chiese sarcasticamente alla fidanzata, fissando il teschio ruotare sul bastone, sul quale lo teneva ancora infilato, mentre lo muoveva.
- Smettetela Felice, non è divertente! – esclamò la ragazza afferrando il teschio e rimettendolo a posto.
- Si, dai amico… sei ufficialmente invitato al nostro matrimonio! – continuò ancora il ragazzo ridendo.
Carmela non rispose, preferì fare finta di nulla in quanto sapeva quello fosse l’unico modo per far sì che il fidanzato la smettesse; finì le sue preghiere e tornarono a casa.
Felice non apprezzò l’atteggiamento ostile che la fidanzata aveva avuto nei suoi riguardi, e le disse minacciosamente che se avesse continuato ad andare in quel cimitero a venerare quello stupido teschio, il matrimonio sarebbe saltato.
La ragazza sentì di non avere scelta, doveva fare quello che il futuro marito le aveva chiesto, ed era sicura che anche l’anima del suo amico fosse d’accordo; infondo era per trovare marito che era andata a pregare il teschio, ed era giusto così. Ora che aveva trovato un uomo da sposare, doveva fare di tutto per tenerselo stretto.

Arrivò finalmente il giorno delle nozze, Felice e Carmela, raggianti al suono della musica nel salone addobbato a festa per l’occasione, si divertivano tra parenti e amici che auguravano ai novelli sposi fortuna e una lunga vita, mentre danzavano punzecchiando il rinfresco.
Tutti gli invitati avevano notato l’entrata trionfale e la successiva presenza di un soldato spagnolo coi gradi di capitano, che teneva un bicchiere in mano ma non beveva, e non aveva toccato niente dal rinfresco, ma nessuno sapeva chi fosse, nemmeno gli sposi. Lo sconosciuto si limitava a salutare con un cenno del capo e un sorriso chi lo guardava, non faceva altro, nemmeno le congratulazioni alla coppia felice. Era un uomo di bell’aspetto, sui trentacinque anni, la sua figura era slanciata ed elegante, e la benda nera che gli copriva l’occhio sinistro – probabilmente deturpato da una ferita di guerra, decisero gli invitati - lo rendeva ancora più affascinante, dandogli quel velo di mistero e un’aria vissuta che intrigava tutti i presenti. Ogni tanto si sentivano alcuni che bisbigliando facevano supposizioni su quell’ufficiale sconosciuto, qualcuno ipotizzò anche fosse un soldato straniero di passaggio, che incuriosito dalla festa, aveva voluto partecipare al ricevimento nonostante non fosse stato invitato. Felice non gradiva la sua presenza, soprattutto quando il tipo guardava sorridendo la sua donna; si lamentava con la moglie fino ad esasperarla, ma per non rovinarsi la festa e in nome dell’educazione che il buon nome della sua famiglia gli imponeva, se ne stava tranquillo e zitto cercando di nascondere agli altri la sua irritazione, pensando che tanto, finito il ricevimento, non avrebbe rivisto mai più quel soldato.
La festa era giunta quasi alla conclusione, mancavano solo i confetti e poi gli sposi sarebbero stati liberi di consumare il loro amore in paziente attesa dietro la porta della camera nuziale nascosta tra le tende di velluto rosso, che avrebbero custodito il momento più anelato dal neo marito, ansioso di sentirsi uomo completo.
Il soldato sconosciuto continuava a guardare insistentemente la sposa, con lo sguardo reso ancora più penetrante dalla presenza della benda, sorridendole. Lei per gentilezza ricambiava il sorriso, ma sfuggiva allo sguardo sperando che il marito non se ne accorgesse. Felice invece aveva notato quelle occhiate fin dall’inizio della serata ingelosendosi sempre di più, a tal punto da non riuscire a contenersi quando quell’uomo osò fare l’occhiolino a sua moglie, mandandolo su tutte le furie.
- Ora state esagerando, amico! O mi dite chi siete, oppure ve ne andate, qui nessuno vi ha invitato! – gridò lo sposo arrabbiato.
- Ma come, Felice, non mi riconoscete? – rispose l’ufficiale pacatamente, sorridendo maliziosamente tra l’improvviso silenzio dei presenti che li circondavano.
Felice lo guardò stupito – Ci conosciamo…? – chiese confuso.
- Certo. Mi avete invitato proprio voi al matrimonio, una settimana fa, l’avere dimenticato? – continuò il capitano.
- Veramente… non ricordo… - rispose lo sposo sempre più confuso, cercando di rammentare dove avesse incontrato quell’ufficiale.
- No? Mi avete infilato il bastone nell’occhio, e mi avete detto di venire al vostro matrimonio. Ora ricordate? – disse il soldato cominciando a ridere quando Felice iniziò a tremare senza riuscire a parlare – sono proprio io, il teschio che vostra moglie venerava!
I presenti cominciarono ad urlare mentre gli sposi increduli e impauriti si dicevano che era uno scherzo fatto da qualcuno che aveva assistito alla scena, non poteva essere possibile…
Il Capitano cominciò a ridere forte, mentre il suo corpo cominciava a degradare e consumarsi progressivamente. Gli invitati scapparono via gridando di terrore, rifugiandosi nelle chiese più vicine per chiedere a Dio di non essere colpiti dall’ira di quell’anima dannata.
Gli sposi, paralizzati da qualcosa più forte di loro, assistevano alla scena tremando e piangendo, urlando disperati e chiedendo pietà a quell’entità infuriata con loro, fino a che il Capitano non tornò ad essere che un teschio, e i due morirono sul colpo, prima che anche il teschio scomparisse del tutto.


Tuttora oggi, a distanza di quasi due secoli da quell’evento, il Teschio del Capitano è custodito in una teca di vetro al Cimitero delle Fontanelle, riaperto al pubblico nel 2006, e di fronte a quella teca, in una bara scoperta, giacciono uno accanto all’altro gli scheletri dei due sposi.
La particolarità di quel teschio – che presenta tra l’altro un alone nero intorno all’occhio che si dice trafitto dal bastone dello sposo - è, che a differenza degli altri crani sui quali è accumulata la polvere posatasi nei secoli, è sempre ben pulito e lucidato. Forse perché assorbe meglio degli altri resti l’umidità di quel luogo sotterraneo scavato tra pietre di tufo, o forse per ragioni misteriose, a noi sconosciute.
A Napoli si è sempre detto che l’umidità di quel posto sia il sudore delle anime del purgatorio, un’emanazione purificante dell’aldilà, che rappresenta le fatiche e le pene a cui le anime sono sottoposte per scontare i loro peccati.
Sarà vero? E se fosse così, tutta l’eternità basterebbe a farci meritare il Paradiso, o almeno un po’ di pace?


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