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lunedì 18 ottobre 2010

La paura puzza come un barbone


di Lagrandefame

Il giovane Nero di Seppia imboccò il vicolo buio e stretto, e con lui altri tre ragazzi armati di ebeti sorrisi e scimmie ghignanti sulle spalle. Il vicolo puzzava di marcio e di pioggia acida che pochi minuti prima aveva corroso l’asfalto della città infernale. I palazzi del vicolo dormivano già da diverse ore, soltanto topastri e grassi gatti avevano gli occhi ben aperti nella giungla della notte, a parte Nero di Seppia e i suoi stralunati amici.
Nero di Seppia fece cenno ai suoi compagni di attenderlo all’imbocco del vicolo dopodiché andò spedito verso un cassonetto dell’immondizia, a ridosso di un ristorante cinese. Il cassonetto traboccava di ravioli al vapore e pollo in agrodolce, oltre che di piccole gocce di sudore delle minute camerieri cinesi del ristorante. A due passi dalla meta Nero di Seppia si fermò, guardando in basso. Ai piedi del cassonetto Nero di Seppia vide uno straccio grigio. Sembrava un cagnone acciambellato su stesso. Era invece un uomo, o meglio, una specie d’uomo che russava e dormiva nel suo stesso vomito e nel suo stesso piscio. Un barbone, devastato da una sbronza micidiale e accasciato al suolo sporco di storie consumate, ignaro delle intemperie della città infernale.
Nero di Seppia s’accese una sigaretta e guardò severo lo straccio d’uomo ronfare ai suoi piedi e a quelli del cassonetto. Tirò un paio di vigorose boccate. Poi chiamò a sé con voce fredda uno dei suoi tre amici, Neurone Bruciato, il quale corse dal suo capo con una tanica attaccata a una mano ricoperta di anelli. Nero di Seppia, senza nemmeno guardare in faccia Neurone Bruciato, strappò violentemente la tanica dalle mani di quest’ultimo, ordinandogli poi di tornare dagli altri.
Nero di Seppia restò ancora a guardare quella pezza d’uomo ai suoi piedi per un minuto: sporco, unto, fetente, secco, barba ispida, peli enormi che uscivano dalle orecchie e dal naso; apparente insensibilità alle mani scoperte e ai piedi nelle scarpe bucate, maglione stracciato e cappotto a brandelli a fargli da coperta. Faceva un freddo cane quell’inverno, e l’umidità trapanava anche le ossa più robuste.
Nero di Seppia, con un brivido, smise di pensare e svitò il tappo dalla tanica. La sollevò all’altezza dei suoi occhi: ne intravide il liquido scuro, ne annusò l’aroma travolgente. E finalmente Nero di Seppia sorrise.
- Bevi anche questa, merdoso scarafaggio – sussurrò a denti stretti.
Nero di Seppia cosparse lentamente di benzina lo stropicciato corpo di Tavernello, il barbone dormiente ai piedi del cassonetto. Quando il liquido raggiunse le labbra tumefatte, Tavernello ebbe un tremito ed emise un grugnito. Forse stava per destarsi.
Nero di Seppia vuotò la tanica, consapevole che Tavernello era in fase di risveglio, l’ultima cascata di benzina nelle orecchie l’aveva fatto vistosamente sussultare. Tirò un’ultima boccata dalla sigaretta, s’allontanò pian piano a ritroso dal cassonetto e dal barbone, sorridendo ancora una volta; poi, con precisione e sicurezza, gettò quel che restava della sigaretta sul corpo zuppo di benzina di Tavernello. Una lingua di fuoco s’alzò all’improvviso, abbagliando lo stesso Nero di Seppia e illuminando gli angoli insozzati del vicolo. Gli amici di Nero di Seppia lanciarono timide grida di esaltazione, contemplando rapiti e inebetiti il fuoco crescere. I gatti e i topi sgattaiolarono via dal cassonetto terrorizzati, con ancora in bocca bottini cinesi fatti a pezzi e rabbiosamente contesi.
Ai piedi del cassonetto il falò di Tavernello cominciò a salire, illuminando il sorriso freddo di Nero di Seppia che oscillava nell’umidità del vicolo. Tavernello ebbe appena il tempo di accorgersi cosa stesse succedendo. Spalancò gli occhi iniettati di alcol putrefatto, già ormai nel vortice delle fiamme, e tentò di guardare in faccia il suo assassino, probabilmente senza volerlo. Appena riuscì a incrociare lo sguardo perfido di Nero di Seppia, Tavernello sollevò un braccio scheletrico che ormai era quasi ridotto a una torcia dalla fiamma olimpica, poi provò a urlare qualcosa. Ciò che uscì dalla sua bocca sembrava il grido impazzito di un porco scannato. Infine tacque, perché, ben presto, nella sua bocca spalancata vi entrò una lingua di fuoco che lo azzittì per l’eternità.
Nero di Seppia ascoltò l’ultimo grido di Tavernello, girò i tacchi e raggiunse gli amici eccitati all’imbocco del vicolo buio e stretto.
- Andiamo via. E’ fatta. Ora quello scarafaggio ha smesso di sporcare la mia memoria – disse Nero di Seppia.
Sparirono nell’inferno della città, lasciandosi alle spalle Tavernello che si consumava tra le fiamme. E attorno a quel rogo, poco dopo, si ammassarono a guardare quattro scarafaggi barcollanti, sbucati da chissà quale improvvisato giaciglio del vicolo. Anch’essi, come Tavernello, erano unti, bisunti, fetenti e stropicciati come una pezza da cucina. Si avvicinarono lentamente al falò dinanzi al cassonetto del ristorante cinese. I loro occhi sprizzavano gocce di vino marcio e vite stritolate dalla miseria. Sembravano cani randagi semplicemente incuriositi dalla novità. Si piegarono goffamente per guardare meglio cosa fosse a bruciare nel forno dell’umana atrocità. Emisero dapprima deboli e strani versi indecifrabili dalle bocche senza denti e dalle lingue nerastre.
- Ragazzi, quello è Tavernello! – riuscì infine ad esclamare uno di quegli scarafaggi, Vomitino.
- Sta bruciando come il carbone! – disse Scoreggia.
- Puzza di vino cattivo, merda! – urlò Rutto.
- Guardate, sta cambiando faccia! Ora sembra uno scarafaggio! – gridò Culo di Fuoco.
L’aria umida si riempì dell’ultimo crepitio dell’ultima briciola delle ossa di Tavernello. Di lì a un minuto Tavernello svanì del tutto e una nuvola di ceneri nere s’alzò, raggiungendo velocemente le alte insegne del ristorante cinese. I quattro scarafaggi, estasiati e dilaniati dalla sbronza della sera, sollevarono le teste puzzolenti e salutarono con buffi cenni della mano il loro vecchio compagno di bevute che aveva soltanto quello stupido nome: Tavernello.


All’ultimo binario della stazione centrale la luce fa capolino molto debolmente, quasi con un timido sussurro. Sulla banchina, al freddo e all’umidità, tremano alcuni corpi di scarafaggi che invano tentano di stringersi nei luridi e sbrindellati indumenti.
Vomitino, Rutto, Scoreggia e Culo di Fuoco sono intenti a fissare le scale del sottopassaggio, accerchiati da un’altra decina di scarafaggi.
- Stanno per arrivare, ragazzi. In campana, eh? – dice Vomitino ai suoi compagni intirizziti.
- Cominciamo a bere? – chiede Dente Marcio, un barbone rumeno, fregandosi le mani.
- Non ora, cazzarola! Abbiamo promesso di aspettare il loro arrivo, quindi aspettiamo. Non lo vedi come siamo belli sobri? Se non fossimo stati sobri tutto il giorno ora non staremmo qui ad aspettare il nemico per la tremenda vendetta – dice ancora Vomitino, guardando fisso negli occhi Dente Marcio.
- Hai ragione, aspettiamo – sussurra mestamente Dente Marcio.
- Bene. Tra pochissimo sbucheranno da quel sottopassaggio. Gli accoglieremo freddi e imperturbabili, pronti coi cartoni di vino in mano a dare il via alla vendetta. Berremo grandi sorsate in un colpo solo, poi li aggrediremo.
- Ottimo piano, amico. Gli faremo un culo così, vedrai – approva Scoreggia.
- Gli spaccheremo le palle – dice Rutto.
- Io bucare culo loro – aggiunge Messiè Monnezzà, senegalese.
- Tavernello avrà la sua cazzo di vendetta! – urlano tutti all’unisono, e dalle loro bocche, oltre le parole, esplodono fetori atroci, marciti negli anni nelle botti putrefatte delle loro budella rovinate dai temporali del proprio vissuto.
D’improvviso il fiato si mozza a tutti. Ancora non si vede nulla, ma un rumore di passi pare sgusciare dal sottopassaggio. Sono passi decisi, sicuri, pesanti. Vomitino e tutti gli altri scarafaggi concentrano le proprie orecchie sporche e i propri occhi cisposi verso le scale del sottopassaggio.
- Eccoli, stanno arrivando – annuncia con un fil di voce Vomitino.
Quattro sagome appaiono lentamente in cima alle scale. Nero di Seppia è a capo della perfida combriccola; dietro di lui sorridono come deficienti gli altri tre: Neurone Bruciato, Mezza Palla e Testa di Cazzo. Tutti e quattro vestiti di nero lucido, in giacca e pantaloni; capelli lunghi al vento e mani e collo appesantiti dall’oro bianco. Sculettano come miss in passerella. Salita la rampa di scale, i quattro arrestano il passo e sgranano gli occhi. Davanti a essi è schierato uno strampalato esercito di scarafaggi puzzolenti. Impugnano la loro micidiale arma: bevanda al gusto di vino in cartone. Sono tutti pronti a lanciarsi a capofitto contro il nemico, in memoria di Tavernello, bruciato vivo in un vicolo buio e stretto. I pochi denti rimasti digrignano per la rabbia e i latrati ruttano nelle scorticate corde vocali. Sono in prossimità di sputare in aria il loro grido di guerra, scalpitando e scricchiolando nelle ossa ormai consumate dall’umidità dell’infernale città. Nero di Seppia e i suoi compagni restano immobili a un passo dalla rampa del sottopassaggio. Non si aspettavano quello schieramento. Erano convinti di trovare gli scarafaggi spalmati sull’asfalto a smaltire in coma le loro devastanti sbronze. Contavano di arrostirli vivi nel sonno, come avevano fatto a Tavernello un mese fa. Ora sono inebetiti e stupiti, drogati fino al buco del culo, impavidi e nello stesso tempo sensibili alla paura. Forse si aspettano da un momento all’altro il rocambolesco attacco dei barboni, e immaginano cosa possa attenderli per via della puzza e della carne marcia contro cui andranno a sbattere. Terrificante.
Ma, all’improvviso, Vomitino alza un braccio per attirare l’attenzione.
- Un momento, compagni! Forse questi uomini crudeli hanno qualcosa da dirci in pace – dice Vomitino. Gli scarafaggi provano ad allentare la tensione con scoregge silenti.
Nero di Seppia fissa gelido gli occhi di Vomitino, accennando una smorfia di ribrezzo.
- Noi non abbiamo proprio nulla da dirvi, e tantomeno in pace – ribatte Nero di Seppia con voce cavernosa.
Vomitino sorride sprezzante.
- Ah no? E cosa ci fate qui, allora?
- E’ una stazione, questa, non una dimora privata. Siamo qui per affari che non vi riguardano. E noi agiamo in totale libertà.
- Non volete avere il buon senso di pentirvi, dunque? – insiste Vomitino.
Nero di Seppia aggrotta interrogativamente le sopracciglia.
- Pentirci di cosa? Che stai blaterando, uomo ostile?
- Di aver bruciato vivo Tavernello, un mese fa.
- E chi cazzo sarebbe Tavernello?
A queste parole alcuni degli scarafaggi mugugnano e grugniscono. Anche Vomitino non può fare a meno di sospirare e poi sbuffare innervosito.
- Non fingere, uomo crudele. Ti abbiamo visto un mese fa in quel vicolo, mentre cospargevi il povero corpo di Tavernello di benzina e gettare la sigaretta per poi scatenare il tragico rogo. Abbi almeno la decenza di confessare l’atroce delitto!
Nero di Seppia sorride sardonico. Azzarda ad avanzare di qualche passo verso Vomitino. Gli altri tre, invece, restano immobili, forse impauriti da quell’imprevista situazione.
- Se mi avete visto carbonizzare il vostro amico, allora perché non mi avete fermato? Perché avete lasciato che lo uccidessi? – domanda Nero di Seppia, sicuro di sé.
Vomitino arrossisce, evidentemente preso in contropiede.
- Perché eravamo…
- Perché eravate ubriachi fradici appiccicati a una macchina sfasciata, ecco! Non eravate nemmeno in grado di reggervi in piedi. E io l’ho ucciso, sì, con una facilità impressionante. E voi, maledetti scarafaggi inutili e merdosi, non potevate avere la forza di fermarmi, e mi avete lasciato bruciare quel pezzente di Tavernello, o come diavolo lo chiamavate! Vergognatevi!
La voce di Nero di Seppia, seppur di basso tono, riecheggia in tutta la banchina dell’ultimo binario della stazione. Fa tremare i lampioni deboli e malati, e fa tremare i suoi stessi amici.
Vomitino, passato il momento d’imbarazzo, riprende coraggio e fissa con tremendi occhi di sfida il suo nemico.
- Hai confessato, dunque! Sei stato tu!
- Certo che sono stato io, barbone di merda!
Vomitino è ora addirittura sbigottito e livido dalla rabbia. Si volta, con gli occhi fuori dalle orbite, e guarda i suoi compagni scarafaggi.
- Amici, avete sentito l’uomo crudele? Attacchiamoci al cartone e partiamo all’arrembaggio! Dichiaro ufficialmente guerra a questo stronzetto nero metallizzato! In memoria di Tavernello! Beviamo, zio cane!
Con una velocità impressionante e inaspettata, tutti gli scarafaggi, in contemporanea, si portano un cartone di vino ciascuno alle labbra e buttano giù mezzo litro in tre secondi netti. Poi esplodono rutti, scoregge e grida eccitate. Nero di Seppia e i suoi amici non hanno nemmeno il tempo di capire cosa sta succedendo che ben presto vengono accerchiati dagli scarafaggi che emanano atroci e mortali fetori.
- L’hai voluta tu la guerra, calamaro dei miei coglioni! – urla un eccitatissimo Vomitino a Nero di Seppia.
- Non mi avrete – dice Nero di Seppia, glaciale.
- Attacchiamoli, cazzo! – urla ancora Vomitino.
A quell’incitamento segue un rocambolesco e confuso attacco frontale. Gli scarafaggi barboni si fiondano a testa bassa contro i corpi dei quattro nemici. Questi riescono ad attutire il primo terrificante colpo: si parano il volto coi gomiti alzati e riescono a bucare la barriera puzzolente degli scarafaggi. Dopo aver penetrato la fetente barriera, gli uomini di Nero di Seppia cominciano a correre alla rinfusa per la banchina, subito inseguiti dai barcollanti barboni che, nel frattempo, non mollano i cartoni di vino, continuando a bere. E’ la loro arma micidiale.
La scena è assurda: Nero di Seppia e i suoi uomini scorrazzano a gambe levate su per la banchina, rischiando più volte di cadere sui binari; gli scarafaggi barboni, claudicanti, gli corrono appresso colpiti da convulsioni, risate isteriche, grugniti eccitati, rutti, scoregge, atroci alitate. Corrono con le braccia goffamente spalancate con l’intento di afferrare i nemici come si cerca di acciuffare una farfalla. Una mandria di zombie allo sbaraglio. In un primo lungo momento, Nero di Seppia e i suoi uomini riescono abbastanza agevolmente a sgusciare via dagli improbabili tentativi di presa dei barboni. Ma questi giocano tutto sulla resistenza, sulla lunga distanza. Dopo buoni cinque minuti di ridicola caccia alle farfalle, finalmente gli scarafaggi, approfittando dei primi sintomi di stanchezza degli avversari, cominciano a vedere i primi risultati della propria tattica strategica: alcuni sono riusciti a braccare uno degli uomini di Nero di Seppia.
Neurone Bruciato, fedele ed ebete servitore di Nero di Seppia, è stato messo alle corde, contro un tabellone degli orari dei treni. A tenerlo sono Culo di Fuoco e Dente Marcio, il barbone rumeno. Neurone Bruciato ansima febbrilmente, appare già stravolto dalla fatica. Dente Marcio, dopo un sorriso terrificante a labbra serrate, spalanca la bocca sulla faccia di Neurone Bruciato, come il ruggito del leone. Neurone Bruciato pare sconvolto da quell’orribile visione. La bocca di Dente Marcio è nera come la pece. Neurone Bruciato lancia un urlo.
- Paura, eh? – dice Dente Marcio, sghignazzando.
- Hai la bocca nera! – urla Neurone Bruciato.
- Ho rovinato i denti a furia di mangiare merda tutta la vita – dice Dente Marcio.
Neurone Bruciato, disperato, prova a dare uno strattone per liberarsi della presa di Dente Marcio e Culo di Fuoco. Ovviamente senza riuscirvi.
- Sempre paura, eh? – dice ancora Dente Marcio.
Neurone Bruciato tenta di reagire al terrore.
- Io non ho paura di voi, maledette zecche puzzolenti! – urla temerario Neurone Bruciato.
Culo di Fuoco gli molla un ceffone terrificante in piena faccia.
- Te la faccio cacare la paura! Lo vedi questo qui con la bocca marcia? E’ rumeno! Non hai paura dei rumeni? – ringhia Culo di Fuoco.
Neurone Bruciato, ascoltate quelle parole, sposta repentinamente lo sguardo allucinato da Culo di Fuoco a Dente Marcio; e lo guarda con il terrore che comincia a colargli a grasse gocce dalla fronte e dagli occhi.
Culo di Fuoco ringhia ancora.
- Sì, è rumeno! E’ venuto qui per stuprare quella zoccola di tua sorella! Ha stuprato per vent’anni tutte le sorelle bagasce dei coglionazzi come te! E in mancanza delle sorelle, strapazza direttamente i coglionazzi. Sei pronto a provare questo brivido?
Neurone Bruciato è ormai atterrito. Scuote debolmente la testa, implorante.
- No…No, vi prego! Lasciatemi stare, vi scongiuro…
- Dente Marcio, abbassagli la testa! – ordina Culo di Fuoco in preda al delirio.
- No! Che cosa volete fare? – frigna Neurone Bruciato.
- Adesso vedi – dice ghignando Dente Marcio.
Culo di Fuoco lascia il nemico completamente nelle mani di Dente Marcio, raccoglie da terra il suo cartone di vino, se lo porta alla bocca fetida, e beve tutto d’un fiato ciò che ne rimane. Schiaccia il cartone vuoto, lo getta a terra, cacciando fumo rabbioso dalle froge del naso. Dente Marcio, con una forza sovrumana, ha fatto piegare in due Neurone Bruciato, facendogli abbassare la testa fin quasi al suolo umido. Culo di Fuoco si cala i pantaloni, si volta, dando il rosso deretano nudo in faccia a Neurone Bruciato, il quale ormai suda freddo e trema come una lingua di fuoco.
- Lo sai cosa sto per sparare da questo buco? – dice Culo di Fuoco indicando il suo deretano – Non lo sai? Tutta la merda della Caritas che ho mangiato a pranzo e tutta la merda della Croce Rossa a cena. E ovviamente due litri di vino in cartone. Dente Marcio, tienilo fermo! Culo di Fuoco sta per ricoprire di merda quest’uomo crudele!
Neurone Bruciato prova a spalancare la bocca per lanciare un grido disperato, ma non vi riesce perché è inondato dalle meraviglie esplose da Culo di Fuoco.
Fuori uno: Neurone Bruciato è battuto.
A pochi passi da Culo di Fuoco e Dente Marcio, si sta consumando un’altra vendetta. Rutto e Messiè Monnezzà, il barbone senegalese, tengono steso al suolo della banchina un altro uomo di Nero di Seppia: Mezza Palla. Questi è con la faccia che preme contro l’asfalto bagnato, mentre sulla schiena gli si sono comodamente seduti Rutto e Messiè Monnezzà.
- Brutto ceffo metallizzato, conosci quest’uomo? – domanda eccitato Rutto indicando il compagno senegalese.
- Io…No…non lo conosco – risponde con grande fatica Mezza Palla.
- Si chiama Messiè Monnezzà; è senegalese, è alto un metro e ottantacinque e ha una verga che può ricoprire la lunghezza di un palo della luce.
Messiè Monnezzà sorride all’indirizzo di Rutto, mentre Mezza Palla, udite quelle terrificanti parole, cerca disperatamente di divincolarsi, ansimando.
- Che cosa vuoi dire con questo? Volete violentarmi? – urla Mezza Palla.
Rutto sghignazza.
- La paura puzza come un barbone, non trovi?
- Che cosa volete farmi?
- Quello che tu hai fatto a Tavernello, cazzone moscio.
Mezza Palla è sul punto di piangere.
- Vo-vole-volete bruciarmi viiivooo?!
- Messiè Monnezzà, giralo! – ordina Rutto al compagno senegalese. Messiè Monnezzà rivolta il corpo scosso di Mezza Palla. Ora il suo volto è ben visibile: è bagnato dalle lacrime, le labbra sono atteggiate a una smorfia paralitica di dolore, le narici tremano, la fronte è imperlata di glaciale sudore.
- Adesso vedrai cosa ti faccio – minaccia Rutto.
Messiè Monnezzà, come fosse cosa già preparata, lancia uno sguardo d’intesa al compagno, solleva a mezz’aria il cartone di vino, infine, piano piano, versa il contenuto sul viso di un terrorizzato Mezza Palla, le cui membra ormai immobili per la paura non sussultano nemmeno al contatto con il terrificante liquido. Rutto, sicuro della vittoria, spalanca la propria bocca in tutta la sua straordinaria larghezza e spara la sua arma a disposizione: il rutto vulcanico la cui lava brucia anche l’anima.
Fuori il secondo: Mezza Palla è incontestabilmente vinto.
A un metro da un distributore di bevande calde, si sta portando a termine la terza vendetta contro l’ultimo degli uomini di Nero di Seppia: Testa di Cazzo. Questi è a terra, a quattro zampe, a novanta gradi. In groppa è seduto Alì il Mongolo, un barbone afgano, smilzo e scheletrico. Alì il Mongolo, da dietro, tiene sollevato per i capelli il capo sudaticcio di Testa di Cazzo, di fronte al quale, accovacciato, sorride bastardo Scoreggia.
- Trema, trema pure, testa di cazzo! E’ la paura che meriti! – grida Scoreggia a uno scioccato Testa di Cazzo.
- Non sono stato io ad ammazzare il vostro amico! – contesta Testa di Cazzo.
Alì il Mongolo gli tira ancor di più i capelli.
- C’eri anche tu quella sera. Hai esultato alla morte terribile di Tavernello. E per questo io esulterò alla tua terribile morte. Ed esulterà anche Alì il Mongolo, non è vero?
Alì il Mongolo annuisce severo.
- Lo sai cosa faceva prima Alì il Mongolo, testa di cazzo? Strappava le palle ai taleban, e alle teste di minchia come te – dice freddo Scoreggia.
Testa di Cazzo, terrorizzato, lancia un debole gemito.
- Frigna, frigna pure, merdaiolo. Ora preparati al peggio – sentenzia Scoreggia.
Testa di Cazzo prova disperatamente a scuotere il capo, come per liberarsi della stretta presa di Alì il Mongolo, seduto in groppa.
- Per favore…Risparmiatemi! – urla il tapino.
Scoreggia ride sguaiato e il fetore atroce della sua bocca azzittisce definitivamente Testa di Cazzo. Alì il Mongolo, consapevole dell’imminente gesto finale, rafforza la presa, tenendo il capo del nemico ben fermo a mezz’altezza. Scoreggia si alza, si volta, si riabbassa di nuovo, ora anch’egli chino a novanta gradi. Infine, innesca il suo obice. Il devastante suono del trombone che esce dal pertugio di Scoreggia annienta il volto di Testa di Cazzo, sfiorando per miracolo quello di Alì il Mongolo.
Fuori il terzo: Testa di Cazzo è indubbiamente finito.
Poco oltre il luogo in cui Scoreggia ha disintegrato Testa di Cazzo, ai bordi della banchina, in precario equilibrio, Vomitino e Nero di Seppia si fronteggiano apertamente. Vomitino sbava vino in cartone, mentre Nero di Seppia sorride sprezzante allo spettacolo penoso che ha davanti agli occhi. Intorno a loro, tutti gli altri scarafaggi sono intenti a riprendere le forze, ansimando piegati in due, osservando silenziosi i due forti contendenti.
- Dovresti guardarti allo specchio, brutto scarafaggio. Stai sbavando quella schifezza e tu non te ne rendi nemmeno conto. Sei orripilante – dice calmo Nero di Seppia.
- Mai quanto te, belva crudele. Hai bruciato vivo un pover’uomo e non ti accorgi neppure dell’ombra del pentimento. Guardala la tua ombra, in basso; è lì che ti scruta severa – ribatte Vomitino, altrettanto calmo.
Nero di Seppia ride a bocca spalancata.
- La mia ombra è colei che ha ucciso quella merda secca di Tavernello, e io l’ho seguita fedele, sicuro del sacrosanto intento.
Vomitino, indignato, avanza di qualche centimetro verso il suo avversario. C’è mancato poco che rovinasse sui binari.
- Tra poco la tua ombra perirà insieme a te, calamaro metallizzato.
Ora anche Nero di Seppia avanza di un passo verso il suo avversario. Entrambi camminano sul bordo della banchina come sospesi nel vuoto su una sottile corda.
- Scarafaggio raccapricciante, non essere così sicuro di te. Hai evitato di soccombere come è accaduto a quel pezzente di Tavernello, ma non potrai comunque evitare di dissolverti in aria per sempre tra non molto. Sei condannato.
- E chi mi condanna?
- Io, ti condanno.
- E chi sei tu, per avere così tanta prepotenza e arroganza?
- Non ti riguarda. Ti basti sapere che sono colui che ti toglierà di mezzo, evitando alla città intera di sopportare ancora a lungo il tuo fetore micidiale.
- Tu sottovaluti il potere del mio fetore micidiale. Sottovaluti le mie armi.
- Non ti basteranno.
- La vendetta ha una forza che nemmeno riesci a immaginare, cacone.
- La vendetta è stupida quanto te.
- Tavernello sta aspettando che tu lo raggiunga all’inferno.
- Quel mostriciattolo non è nemmeno all’inferno, le sue ceneri fanno da condimento agli involtini primavera di un ristorante cinese.
Vomitino, sempre più indignato ed esasperato, avanza ancora verso Nero di Seppia. Ormai i due sono a uno sputo di distanza, e sempre in precario equilibrio sul bordo della banchina. Nero di Seppia non fa altro che storcere il naso e la bocca per via degli effluvi omicidi di Vomitino. Vomitino, cartone di vino in mano, continua a sbavare.
- Non hai paura, vero? – domanda ingenuamente Vomitino.
- E perché dovrei? Dinanzi a uno scarafaggio come te soltanto una blatta da cucina potrebbe intimorirsi.
- Le tue offese non mi pungono.
- Ma ti uccideranno quando meno te l’aspetti.
- La tua sicurezza verrà a mancare, e a quel punto ti cacherai addosso dalla paura.
- Non vedo come potrai riuscirci, barbone rammollito.
- Ti devasterò la psiche per quanta paura ti metterò.
- E come? Pensi di terrorizzarmi scoreggiandomi in faccia?
- Ora basta, calamaro dei miei coglioni. Mi hai stufato.
- Su, vienimi addosso, puzzone.
- Vendicherò Tavernello, tremendamente.
- Creperai peggio di lui.
- Non ti permetto più di nominare il mio amico.
- Tavernello era frocio, oltre che barbone.
- T’impongo di fermarti!
- E anche impotente. Impotente, frocio e barbone.
- Non un’altra parola ancora!
- Tavernello, un barbone senza pisello! Tavernello, un puzzone nel castello!
Vomitino, ormai con la rabbia che gli cola dal naso, alza le braccia la cielo, senza gettare il cartone di vino, quasi accecato da qualche strana e mistica visione. Lancia un urlo animalesco, sputando vino marcio al cielo, squarciando la notte della città infernale, deragliando treni in arrivo, scuotendo la sala d’attesa della stazione, frantumando gli altoparlanti e gli schermi giganti, squagliando il ghiaccio dei drink, spaccando i timpani dei tassinari, destando i viaggiatori perduti, disorientando i macchinisti esperti. Svegliando tutto l’esercito dei barboni di tutta la stazione, dall’atrio all’ultimo binario. Tre secondi dopo l’agghiacciante grido, una mandria di zombi sbrindellati appare in tutto il suo splendente sudiciume e inebriante fetore. Barboni, scarafaggi. Sono venti, no, forse trentacinque, o addirittura quaranta, oltre Culo di Fuoco, Scoreggia, Rutto, Alì il Mongolo, Messiè Monnezzà e Dente Marcio.
Nero di Seppia, con sua grande meraviglia, si scopre spaventato. Gira la testa e vede il mare di barboni che, con lentezza inesorabile e spaventevole, gli si sta avvicinando con grave minaccia. E’ uno tsunami puzzolente che ben presto spazzerà ogni cosa immonda.
Vomitino s’avvede dello spavento dipinto in volto di Nero di Seppia, che torna a guardare il viso sporco dell’avversario. Vomitino sorride sornione. Fissa il terrore negli occhi dell’avversario, a due centimetri dai propri occhi. Vi legge la fine inaspettata, la vendetta che si disseta e sospira soddisfatta.
L’esercito di barboni è ormai a pochi passi da Nero di Seppia, è ormai prossimo ad agguantarlo e squartarlo vivo, mangiato dai denti marci e dalle bocche nere. Ma non è questo che accade. L’esercito, improvvisamente, s’arresta. Soltanto Culo di Fuoco e Scoreggia avanzano di qualche passo, afferrano uno stralunato Nero di Seppia, e lo conducono verso il centro della banchina. Gli tengono le braccia. Vomitino s’avvicina al nemico, continuando a fissarlo negli occhi con un ghigno.
- Come vedi, brutta seppia andata a male, hai perso. Quando meno te l’aspettavi la paura ti ha aggredito le membra e ti ha immobilizzato. La paura ha emanato i suoi mortali effluvi e ti ha colpito. Perché la paura puzza come un barbone – dice Vomitino, di nuovo calmo.
- Uccidimi, dunque. Vendica il tuo maleodorante amico – sussurra Nero di Seppia, sorprendentemente senza più forze.
- Farò di peggio – dice Vomitino.
Nero di Seppia guarda interrogativamente il suo avversario.
- Morire è il peggio.
Vomitino scuote la testa, sorridendo.
- Vedrai.
Fa cenno agli amici scarafaggi di tacere. Chiama silenziosamente a sé Culo di Fuoco, dalle cui mani nerastre strappa un cartone di vino, soppesandone poi la quantità del contenuto. Sorride soddisfatto. Il cartone è quasi pieno. Lo solleva come il prete alza al cielo la coppa del sangue di Cristo, recitando una sorta di preghiera in una lingua indecifrabile, probabilmente in dialetto stretto. Riporta giù il cartone, all’altezza della bocca. Beve. Butta giù. Ingoia. Succhia. In due secondi, non di più. Il suo volto, subito dopo, ha un’espressione sofferente. Vomitino strabuzza gli occhi, trattiene il respiro, va in apnea, poi, piegandosi velocemente in due, vomita tutto ciò che ha in corpo, tutta la vita passata e i dolori incastonati nell’anima. Il lago di putrefazione che si è repentinamente formato ai piedi di Vomitino è spaventoso e incredibile. Tutti i barboni, estasiati, sono con lo sguardo basso ad ammirare quello spettacolo orribile. Anche Nero di Seppia, braccato senza scampo da Culo di Fuoco e Scoreggia, guarda il mare di vomito del suo avversario. Poi alza lo sguardo e fissa rassegnato Vomitino, presentendo forse ciò che gli accadrà.
- Che cosa vuoi farmi? – domanda debolmente Nero di Seppia.
- Farti annegare nel mio vomito, per tutta la vita che ti resta.
Nero di Seppia ha un’improvvisa crisi di panico. Spalanca gli occhi, comincia a tremare, suda copiosamente, balbetta, piange. Vomitino lo osserva divertito.
- Hai paura, calamaro scaduto?
Ma Nero di Seppia non risponde, o meglio, non ci riesce: apre la bocca ma da questa non esce alcun suono.
- Forza, portatemelo qui, davanti al mio vomito – ordina Vomitino.
Culo di Fuoco e Scoreggia sollevano Nero di Seppia per le ascelle e lo portano di fronte a Vomitino. Tra i due, il mare di vomito.
- Chinatelo e affondategli la testa in questa merda – dice ancora Vomitino.
Ma nel momento in cui Culo di Fuoco e Scoreggia fanno per eseguire l’ordine, Nero di Seppia, con tutte le sue ultime forze ritrovate, spalanca la bocca e urla:
- Nooo! Nooo! Fermatevi! Tavernello era mio paaadreee!
La parola “padre” si allunga fino a uscire dalla stazione centrale. Vomitino è stato letteralmente investito dall’ultima parola gridata. Ora, sconvolto, guarda a bocca aperta gli occhi pieni di lacrime di Nero di Seppia. Anche tutti gli altri barboni sembrano sospesi, in religioso silenzio, estremamente incuriositi dal grido di Nero di Seppia.
- Che cosa cazzo hai detto? – chiede uno stralunato Vomitino.
Nero di Seppia, ansimando parecchio, riesce a tirasi su. E’ parecchio sudato e bianco come un cencio.
- Tavernello era mio padre – ripete Nero di Seppia, stavolta con calma.
- Sei fuori di testa?
- E’ la verità.
Vomitino scuote la testa, incredulo.
- Vuoi dire che hai ammazzato tuo padre?
- Sì, l’ho fatto, per cancellarlo dai miei ricordi, per annientare i miei dolori.
- Sei pazzo. Non può essere vero ciò che stai dicendo.
- Dico la verità! Mia madre ci abbandonò cinque anni fa, se ne andò in Spagna con un pasticciere irlandese. Un anno dopo, ucciso dal dolore, anche mio padre partì, lasciandomi da solo in casa con una zia maniaca. Per tre anni l’ho cercato senza sapere minimamente dove si fosse cacciato. E durante questa disperata ricerca ho cominciato a nutrire un odio incommensurabile sia per mia madre che per mio padre. Ma quando poi ho saputo che mia madre era morta, l’anno scorso, ho capito che dovevo assolutamente trovare mio padre.
- Per dirgli di tua madre morta o per ammazzarlo?
- La prima che hai detto. Un giorno l’ho trovato, in questa stessa stazione, otto mesi fa. Non credevo ai miei occhi: era un barbone, uno stomachevole barbone!
- Bada a quello che dici, stronzo.
- Gli ho raccontato tutto, ma lui era talmente ubriaco e malconcio che non mi ha riconosciuto. E non mi ha riconosciuto tutte le volte che l’ho trovato e ho provato a parlarci. Mi ha insultato e scacciato, sempre. Allora ho deciso di distruggerlo, così come ha distrutto me. Avrei fatto lo stesso anche con mia madre, se non fosse morta prima.
Tutto l’esercito dei barboni ha ascoltato la breve storia di Nero di Seppia in tumultuoso silenzio, interrotto di tanto in tanto da lapidari commenti sganciati dalle proprie interiora in subbuglio. La verità di Nero di Seppia ha sconvolto gli animi presenti, compreso quello di Vomitino, ora sospirante e serio in volto.
- E dimmi, uomo crudele: cosa pretendi di avere in cambio della tua triste confessione? – chiede Vomitino.
Nero di Seppia è esausto, e prima di rispondere a quella domanda inspira quanta più aria riesce a pescare con la bocca tremolante.
- Se non morire, diventare almeno come voi – risponde Nero di Seppia.
A quella temeraria risposta gli scarafaggi rumoreggiano ansiosi. Vomitino guarda severo il suo nemico sconfitto.
- Credi dunque che essere come noi sia peggio che morire? Pensi che diventare un barbone schifoso sia la peggior condanna che possa essere inflitta a un essere umano? – domanda inesorabile Vomitino.
- Credo che sia l’unico modo per vivere tutte le sofferenze che mi merito. Se muoio, non avrò espiato le mie colpe.
I barboni sospirano sollevati, e anche Vomitino sembra aver apprezzato la risposta di Nero di Seppia. L’ha accolta con un sorriso benevolo.
- D’accordo. Da oggi sei condannato a soffrire nel freddo, nella miseria e nell’umiliazione per espiare le tue atroci colpe. Scoreggia, portami un cartone di vino!
Scoreggia esegue fulmineo l’ordine di Vomitino. Gli porge un cartone ancora sigillato. Vomitino, con gesto solenne, strappa un angolo del cartone e, continuando a sorridere, beve un sorso, questa volta lieve. Poi tende il cartone a uno sfinito Nero di Seppia. Questi sembra tentenni, come se avesse paura di prendere quel cartone. Vomitino lo incoraggia con gli occhi. Nero di Seppia annuisce, afferra il cartone, se lo porta delicatamente alle labbra poi, dopo un secondo di solenne riflessione, beve. Beve a lungo, a profonde sorsate. Quando smette, guarda Vomitino con un sorriso malinconico.
- Ecco, ho appena assaggiato la prima di una lunga serie di sofferenze – dice Nero di Seppia di nuovo con voce cavernosa. Vomitino allarga il sorriso, evidentemente compiaciuto.
- Compagni, anche se non con la morte violenta, abbiamo comunque esaudito il desiderio di vendetta di Tavernello. E’ una giusta vendetta, perché chi ha inflitto sofferenze è destinato a soffrire, fino a quando le colpe non saranno espiate. Beviamo, beviamo tutti, dando il puzzolente benvenuto a quest’uomo crudele che ha ucciso suo padre, e che ora vuole uccidere se stesso. Salute!
Tutti bevono, sonoramente, sfidando l’umidità della città infernale, brutale assassino pronto a colpire aspettando vigliacco in un angolo lurido.
Poi viene il mattino, parte il primo treno, e l’esercito di scarafaggi decide di avanzare verso l’uscita della stazione, andando incontro alla paura che ha il loro stesso odore.



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