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martedì 2 novembre 2010

Surfer


E’sempre la stessa emozione, ogni volta che vedo l’Oceano.
Arrivo di solito due, tre giorni prima della mareggiata, mi trovo un posto isolato e ben protetto dal vento di terra, che potrebbe compromettere il taking off sull’onda. Piazzo la tenda, controllo che la tavola sia a posto, e aspetto.
Per qualcuno il Surf è una sorta di religione, ma io non la vedo così. Non è uno sport, non solo, questo è chiaro. Personalmente lo tratto come un fratello, che mi insegna a restare in piedi su meno di un metro di legno, senza dover necessariamente parlarmi. Il suo lessico è il moto delle onde, le correnti d’aria che mi assalgono quando, nel mezzo di un tube riding, la parete d’acqua sopra di me si piega fino a formare un tunnel azzurro, e la longboard sotto i piedi inizia a vibrare.
Parla con il crescere lento ma continuo dei flussi e delle correnti, man mano che la mareggiata si avvicina, e la distanza fra due onde successive diminuisce, mentre aumenta la loro altezza. E’ un momento particolare, quello. Una buona onda deve avere un rapporto altezza/velocità pressoché perfetto. Altrimenti tanto varrebbe andare in un Parco Acquatico.

Mentre aspetto, passo diverse mani di paraffina sulla tavola, dal nose al tail, la punta e la coda. Questa occupazione mi rilassa, ormai nemmeno guardo più la tavola mentre procedo; fisso ipnotizzato l’Oceano, e misuro mentalmente la distanza tra un’onda e l’altra, mentre aumentano, e la mareggiata si avvicina.
Non vado sempre nello stesso posto, no, perché è difficile trovare condizioni favorevoli per due anni successivi in uno stesso punto della Costa, e poi mi piace cambiare. Conosco surfisti che, una volta trovata la spiaggia ideale, l’eleggono a loro campo base, e ci tornano sempre. Li chiamano local, in gergo. Io no, sono un Nomade, mi baso sulle previsioni meteorologiche, e su quel minimo d’intuito, che anni di pratica ha affinato.
No, il Surf non è una religione, per me, e nemmeno uno sport. E’ un modo per sentire parlare l’Oceano, con la sua voce silenziosa, fatta di milioni di sfumature, e più profonda e gentile di qualunque altra voce, anche di quella di Dio, probabilmente.


b)
Duck Dive

La mareggiata. E’ arrivata. Il mare increspato s’inarca ad intervalli regolari, il cronometro delle correnti perfettamente sincronizzato, e già riesco ad intravedere, fra il bagnasciuga e l’orizzonte, una successione di linee parallele, che attraversano il campo visivo. Quelle si che saranno onde gigantesche, Gesù!
Mi alzo in piedi, abbraccio la longboard, appoggiata al mio fianco. Accarezzo la liscia superficie ancora calda di paraffina e attrito, e rimango così un momento, recitando mentalmente una preghiera ai Kahuna e a Brian Wilson. Poi scatto verso l’acqua.
Facendo forza sui muscoli delle gambe, cercando di rimanere indifferente allo schianto dei cavalloni, gli spruzzi, e la schiuma dentro cui annaspo fino alle cosce, mantengo la tavola in direzione sulla superficie dell’acqua, finché il moto delle onde non mi avverte che è ora di sollevare i piedi dal fondale, e stendermi sull’asse.
E’ il primo accenno di volo, quel momento in cui sali sull'asse e, con le mani batti pigramente il mare agitato, affondando quel che basta per mantenere la direzione.
Avanti, ancora un po’, e le onde si alzano sopra di te, minacciose e crudelmente sorridenti, la cima frastagliata e biancastra, poi s’ingolfano e, pietosamente, passano sotto la tavola, sollevandone leggermente il nose, schernendo il tail, ma intanto facendoti guadagnare qualche metro.
Di metro in metro, infine, sei dall’altra parte dell’onda, e puoi virare, facendo leva con il braccio a mo’ di timone. Il contatto con l’acqua, a quel punto, è simbiotico. E ti metti a sedere, cavalcioni, sulla longboard.
E’ una vista mozzafiato, quella che si presenta al surfer, quando quest’ultima operazione preliminare è compiuta, e non resta che attendere l’onda. Indescrivibile. Indimenticabile.
Poi, senza vederla, ma sentendone la vibrazione che attraversa le correnti, e scuote la base della tavola, l’onda arriva. Trattengo il respiro, per non disturbare l’equilibrio perfetto che si è creato fra me e l’Oceano. Aspetto il momento giusto.
Quando la prima, leggera, carezza dell’onda, amichevolmente ticchetta sul nose della tavola, mi rannicchio, e afferro i lati dell’asse con le mani. Senza tempo per riflettere e, nel caso, fermarsi, l’onda mi solleva. Chiudo gli occhi, e con un colpo di reni salto sopra la longboard, allargando le braccia e lanciando un grido silenzioso.

Quello che è venuto prima era il Preludio.
Questo è

c)
Tube Riding

Silenzio frastagliato, fa parte di me. Benedetta assenza di rumore, le onde non urlano, si susseguono lineari e armoniche, sul mare.
Io sono sulla spiaggia. Follemente disteso su strati di scogliere morte, frammentate polverizzate divinamente prive di segnali e tracce per archeologi e mistici e professori di ruolo.
La sabbia. Sono disteso sulla sabbia, ed è ormai quasi il tramonto. Ho eseguito un tube riding perfetto... cazzo, se l’ho fatto!
Dopo quattro scivolate da manuale, elementari, ma le onde non erano granché, gonfie appena da scaldare la tavola, e un tentativo di aerial finito in wipeout, ho avvertito come una voce che mi massaggiava i capelli incrostati di salsedine. E’ una voce che chi viene al mare in cerca di velocità conosce benissimo. La voce di una forza elementare che parla attraverso fenomeni e molecole. La riconosci, perché è la stessa che senti quando sei lontano dal mare, e ti cibi di silenziosa attesa.
“Arriva!” ha detto quella voce. E mi sono voltato a guardare. L’Onda.
Già a vederla così, ancora una cinquantina di metri fra me e l’orizzonte, faceva paura. La paura è un elemento imprescindibile se fai Surf. Non aver paura è da incoscienti. Ma gli incoscienti non fanno Surf.
L’ho guardata, quell’onda, e più si avvicinava, più tremavo. Avevo la pelle d’oca, e non era freddo, anzi. I tendini delle braccia parevano percorsi da cavi elettrici ad alto amperaggio. L’ho attesa, con un sorriso di sfida.
Il taking off è stato pressoché perfetto. L’onda mi ha sollevato, portandomi in alto, ma ero io che governavo la tavola, mantenendo un equilibrio statico, pur nel moto in avanti. Mentre la cresta iniziava ad alzarsi, sono scivolato in diagonale, e ci sono andato sotto.
Il tunnel, qualcuno lo chiama. Cinque metri di parete d’acqua incurvata sulla testa, che si richiude meno a mano che la cresta dell’onda precipita su se stessa. Cinque metri di parete d’acqua, avete idea quante tonnellate? E io dentro, a sfrecciare come un proiettile, tagliando longitudinalmente quella meraviglia mortale! Avete mai provato ad infastidire un gatto? Moltiplicate la sua reazione per qualche miliardo di milioni, ed avrete una vaga idea dell’incazzatura di una forza primordiale interrotta nel suo naturale incedere. Ma è questo un tube riding, questo è il Surf.
Mentre il tunnel si chiudeva dietro di me, e io mantenevo un assetto perfetto sulla tavola, a velocità costante, non guardavo la parete sopra di me. Guardavo quella dentro di me, e la vedevo sbriciolarsi.
Sono schizzato fuori dal tunnel, nell’attimo in cui la parete d’acqua è precipitata su se stessa, rombando dietro di me il suo Osanna. Un tube riding perfetto. Poi, mi sono lasciato dolcemente cadere in acqua, abbandonandomi alla corrente, che trasportava me e la mia asse verso riva. Steso sulla sabbia, ho baciato il cielo.
Tutti sanno che questo è Nessun Luogo. Non è l’Arcadia. Non è l’Inferno. Non è la pista dell’Orda d’Oro. E’ una spiaggia. Nascosta. Minima. Invisibile. Solitaria. Qui non ci sono guerre, qui il tempo scorre senza padroni, il vento insegue i secondi, non ne è trascinato. La sabbia svanirà nel nulla, fra diecimila anni.
In principio era il Nero. Un nero scuro e denso come un’iride spenta. Poi venne il Mare. Dopo, venne Dio.
Chiudo gli occhi, e ascolto in silenzio il silenzio.




2 commenti:

  1. ..."il Surf."
    "Quello che è venuto prima era il Preludio.
    Questo è il Surf", è rimasto fuori dall'impaginazione, maledetti!!!!! xD

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