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sabato 2 aprile 2011

150 anni di lutto nazionale


di Giovanni Pili.

Se si prende un atlante storico e si cominciano a sfogliare le cartine dell’Italia dal 1800 al 1861 vediamo un’isola, la Sardegna, supponiamo di colore rosso, poi nella cartina successiva relativa al 1815 il rosso copre il Piemonte, la Liguria, la Valle d’Aosta e alcune regioni della Francia Sud Orientale. Sopra questi territori compare una scritta eloquente: Regno di Sardegna.

Da qui lo slogan “dalla Sardegna parte l’unità d’Italia” che riflette tanta superficialità da parte di chi lo assimila, quanta furbizia da parte di chi lo ha creato. Senza contare la miseria intellettuale del sardo che si sente addirittura orgoglioso di questo. In realtà se andiamo ad analizzare i fatti storici lo scenario è decisamente diverso. Non si tratta di fare una operazione di revisionismo storico; non stiamo scoprendo pagine fosche inedite – come nel caso del colonialismo piemontese nel Meridione – semplicemente prendiamo atto di quello che tutti dovrebbero aver studiato nei sussidiari delle scuole medie inferiori.

Il Regno di Sardegna apparteneva nominalmente al papato, come una sorta di feudo senza trono. La nazione sarda era allora divisa nei quattro giudicati e non riuscì a creare uno stato-nazione, come avvenne invece in Francia o in Inghilterra dopo la guerra dei cento anni. Nella metà del XV secolo gli aragonesi, approfittando di questa divisione, invasero l’isola, e i suoi sovrani vennero legittimati come re di Sardegna. Quando nel 1714, al termine della guerra dei sette anni, la Spagna dovette pagare la sconfitta in oro e terre, il regno di Sardegna passò ai duchi di Savoia (dopo un intermezzo di pochi anni in cui il regno è sotto l’Austria, mentre i Savoia ottengono la Sicilia; Avverrà poi che i due governi si scambieranno queste due isole) che quindi vennero promossi di rango, passando dal livello ducale a quello regale. Così negli atlanti storici scompare la dicitura 'Ducato di Savoia' e compare la scritta 'Regno di Sardegna'. Per la verità i meridionali che subirono l’unità d’Italia impararono a conoscerli come piemontesi o sabaudi; quest’ultimo è il termine che gli stessi piemontesi preferiscono.

Va detto inoltre che la Sardegna non ha mai partecipato al Risorgimento. Non esiste nessun episodio storico che lega i sardi a questa epopea. L’isola viene menzionata solo alla fine, quando Garibaldi sceglie Caprera come sua ultima dimora. Ecco quindi che prendendo in considerazione i fatti storici, di pubblico dominio, scopriamo che definire l’unità d’Italia come un fenomeno storico che comincia dalla Sardegna è pretestuoso.

Finché lo stato italiano continuerà a ignorare le istanze naturali della nazione sarda alla sua autodeterminazione, nell’ambito dell’Unione Europea e fuori dall’occupazione militare della Nato – patto che la Sardegna non ha mai sottoscritto – per tutti i patrioti sardi l’anniversario dell’unità d’Italia sarà visto come un giorno di lutto.

È sbagliato considerare l’indipendentismo sardo come qualcosa che mina l’unità d’Italia. Non si tratta infatti di una secessione da una nazione a cui si era appartenuti, ma il riconoscimento di una diversità da una nazione che per i sardi è del tutto estranea.

Con questo breve articolo mi rivolgo in modo particolare ai lettori del nostro magazine, che per la maggior parte sono, e orgogliosamente si sentono (come è giusto che sia), italiani, con un invito all’approfondimento, a non fermarsi ai meri slogan. Ben venga questa ricorrenza storica, purché non ci si limiti alle fanfare. Che sia invece un’occasione per poter analizzare in modo critico cosa realmente avvenne 150 anni fa, e riconoscere quelli che, effettivamente, possano essere definiti italiani, e chi invece deve essere riconosciuto come appartenente ad una nazionalità diversa.

Esistono dei posti ingiustamente dimenticati, soprattutto dai giovani: si chiamano biblioteche. La schiavitù più grande è quella che una cultura dominante impone alle masse, in modo da far loro compiere scelte che in realtà sono state già pianificate dall’alto. È molto facile, basta che il telespettatore o il votante non abbia un quadro completo e approfondito dei problemi, del proprio senso di appartenenza, o di cosa sia realmente la dignità.

Per liberarsi da queste catene la cultura è l’arma più efficace. Ed è proprio quello che la nostra redazione si propone di fare.



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