
di Andy Sin.
La morte fra le fiamme. La morte dei dannati. La morte che solo il coraggio dell'umile può avere. Orribile ed eroica.
E' passato un anno da quella sera. L'alba livida del giorno dopo, in cui il mondo scopre la tragedia della fonderia Thyssen-Kruopp. L'effetto che ha la notizia è annacquato, ma qualcuno parla di responsabilità della dirigenza sulle misure di sicurezza. Serpeggia quest'accusa quando inizia a rimbalzare su tv e internet quella telefonata al 118: l'urlo “Non voglio morire!” ci risveglia. Ed in un attimo ci sentiamo come in un nuovo medioevo, in cui la consapevolezza di appartenere ad un padrone era li peso da portare per una vita. Gli operai della Thyssen diventano un simbolo: quello di un paese nel paese, quello di un popolo che non vuole essere come gli altri. Non vuole mischiarsi ai fannulloni, quelli veri, quelli che fanno gli straordinari per pagare la retta dell'università al figlio. E' questa l'Italia che si risveglia il 6 dicembre del 2007.
Si, è il nuovo anno zero a Torino. La città simbolo delle lotte italiche, quelle più passionali, quelle più eroiche, come contro le Brigate Rosse con il giudice Caselli, come i grandi sciperi, con quell'immagine di lotta con classe e non di classe, la classe delle persone per bene. Di nuovo, come ogni volta prima, la città risponde. Si scende in piazza a Torino, come non succedeva da anni. E liberi dalle ideologie del passato, l'appoggio cittadino è stato trasversale.
Per questo, soprattutto per questo, la città chiedeva giustizia: la si doveva ai familiari di povera gente che era morta bruciata, carbonizzata. Davanti ai sopravvissuti spettatori, impotenti nella tragedia. Per questo fondato motivo l'amministratore delegato della Thyssen, Harald Espenhahn, dice che, Antonio Boccuzzi, sopravvissuto al rogo, “va fermato con azioni legali”.
Fa paura. Fa paura un operaio che possa accusare in modo così sfacciato. Fa paura il fatto che possa servirsi dei media per gridare a tutti la tragedia di quella notte, causata dalla negligente ossessione per la massimizzazione del profitto, sulla pelle di operai sottopagati. Una bestemmia in questo occidente sempre più relativista. Lesa maestà o tabù per la sinistra. Non esiste solitudine più grande che essere protagonisti di un dolore che tutti schivano, negano, ostinatamente negano.
Ed ecco che ancora, ad un anno di un anno, Torino è vicina a se stessa. La città si stringe intorno alle sue vittime, scende in piazza, garbatamente, ordinatamente, e chiede giustizia. Chiede che gli amministratori dell'azienda siano condannati per omicidio volontario. Chiede che una volta per tutte venga riconosciuta un'aggravante a chi, scientemente, specula sulla vita dei propri dipendenti. Che si dica che questo atteggiamento non è diverso dai barbari bagni di sangue delle guerre, in cui l'essere umano diventa la carne da macello più efficace. Ecco dove la Torino piemontese, orgogliosa, pacata ma decisa arriva con la sua lotta. Sempre lotta con classe, non “di” classe.
Nessun commento:
Posta un commento